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Giugno 2016 
Non avrei potuto essere più fortunato. È logico ed è un fatto assodato, nessuno farebbe cambio con quella di un altro, ma io voglio dirlo … come lo fanno i bambini, quando vogliono essere o apparire, più degli alti: io… sono stato più fortunato.

 

 

 

 

 

 

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Di cosa sto parlando? Ma… della mamma!!! È chiaro. 
Siccome ad Aprile, in occasione del compleanno di papà, ti ho raccontato di lui, per par condicio, visto che il due di Giugno sarebbe il suo di compleanno, ti racconto qualcosa di lei. 

Avvertenza… Sai che quando mi faccio prendere la mano divento un insopportabile logorroico. Pertanto abbi pazienza e ti annoia il racconto, non esitare a saltare o passare ad altro blog, son in grado di capirti benissimo.  

 

 

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Come tutte le mamme la Nemi era … bellissima, questa foto mi pare che lo dimostri. 

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Ma, ad essere sincero non ritengo sia sempre stato così. Creto anche in questa foto, che la ritrae a due /tre anni, sul pianerottolo di casa, alla porta della vicina, la Zia Peppa, è bella come tutti i bambini di quell’età. Ma la mamma a detta dei parenti, già da piccola, era una… resietta, che tradotto in linguaggio attuale: una rompicoglioni.

La zia Peppa era una zia acquisita, in seguito anche da me, che vedevo solo quado andavamo a trovare i nonni da parte della mamma . La Peppa, era una donna vecchia e sola, credo zitella o vedova da anni, viveva in un monolocale dove il letto con le zampe di leone intagliate, e l’armadio impiallacciato in radica, riempivano quasi tutta la stanza. Fumava. Una cosa che allora, per una donna della sua età era rarissimo e “sconveniente”. Anche la mamma e papà fumavano, ma quando facevamo visita ai rispettivi genitori, non lo facevano in loro presenza. Ma appena fuori… La Peppa, aveva le mani rovinate e sporche di nero; faceva l’operaia.

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Sue foto da adolescente non ne ho, solo questa, e realmente, al di la del sorriso, non mi sento di affermare che fosse una “venere”, ma come spesso accade alle “resiette” DOC, aveva altre qualità che la facevano apprezzare ed amare. 
Si dilettava a leggere, studiare, conversare e discutere, e con suo padre, il Boremo, dal quale aveva preso tutte queste caratteristiche (inclusa quella caratteristica principale) aveva una intesa particolare. Per questo lui la proteggeva dalla nonna Maria, (sua madre) che alla quale, alla fine le toccava, suo malgrado, con lei, far la parte della burbera. 

A scuola andava benissimo e le pagelle che ho trovato, lo confermano. Avrebbe voluto studiare medicina o per lo meno fare l’infermiera, mi ha raccontato qualche tempo fa,  quando li avevo messi all’angolo e tempestati di domande, per fare l’albero genealogico, interattivo.  Sarebbe stata un’ottima infermiera (se non dottoressa), perché tutte le volte che ha portato me e mio fratello al pronto soccorso, ancor prima che il medico si esprimesse, aveva già fatto la sua diagnosi, che il dottore regolarmente confermava. Una bella sicurezza… 
Ma la Maria non voleva  che studiasse da infermiera per poi… passare tutta la vita coi malati. In milanese, lo diceva in un modo molto più colorito.

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 Qui la vedi molto giovane, in due foto che sembrano scattate nello stesso periodo; la prima è quella sul passaporto, la seconda…. 

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In versione mare e monti. La prima è la foto mandata a papà quando era al corso di pompiere alla Cecchignola, la seconda, è stata scattata a Gressonei La Trinitè nel ‘952,  un paio di anni prima che si sposassero. Infatti, papà mi faceva notare che il suo abbigliamento; maglione, pantaloni e stivali, era quello della divisa da pompiere. «Assomigliavo un po’ a quelli che avevano le tenute da sci di allora…» così diceva, ma… a me non sembra! Lei però era attrezzata...

In uno di quegli “interrogatori”, per colpa/merito delle mie insistenti domande, sono caduti in contraddizione, ed a un certo punto, hanno finito per raccontarmi un aneddoto che se fosse andato diversamente da come si è svolto, avrebbe potuto cambiare la loro vita, tanto che io non sarei qui a scriverti. 
Sono contento di averli messi sotto torchio ed esserne venuto a conoscenza.

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Questa bella foto non te la mostro per complimenti alla bellezza del sorriso della mamma, 16enne, ma per farti vedere quello che loro stessi raccontavano, come un goffo tentativo, evidentemente non riuscito, in occasione di una “castagnata”, di tornare dal gruppo di amici, senza essere notati. Invece, un amico prontamente ha documentato il ritorno.  
Notare la faccia da “tarlucch” di papà, sempre un po’ “mal trqa insèma” nel vestiario…

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Oggi sposi. Viaggio di nozze (in treno) a San Remo, il giorno dopo… all’estero. Monte Carlo (A/R in giornata) a visitare i parenti emigrati in Francia.
La è stata scattata dal marito della “sposina” anch’essi in viaggio di nozze ed ospiti nello stesso albergo.
Eh… papà. Che capa di bomba eri? Ed io devo aver preso da te. Ma lassem perd

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«La più bella foto di tua madre!». Così diceva quando mi mostrava questa foto. «Aveva una bocca che era un incanto» aggiungeva poi. E come non concordare.

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Questa invece, è la mia foto sua che io preferisco. Naturalmente non la ricordo così, eccetto che per i denti, che ricordo benissimo, per i “segni del tollin della Coca Cola” che lasciavano su mio avambraccio. 

Già perché ti parrà incredibile ciò che ti dico ora, ma mia madre, nel periodo che frequentavo le scuole elementari, “menava”, e di brutto. 

È evidente che io ci mettevo del mio per tirarla fuori dagli stracci, ad esempio quando passavo ore ed ore, sullo stesso problema di aritmetica (una mucca 4 zampe, quattro mucche quante zampe?). Infatti, fingevo di guardare il foglio e studiare, mentre in realtà seguivo la partita che gli amici giocavano proprio sotto il balcone di camera mia. 
Oppure per imparare le poesia a memoria, ripetevo decine di volte la stessa strofa: «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti.» – Poi… dai vai avanti? «Era trecento, eran giovani e forti, e sono morti.» - “Pam” scappellotto.

Così, quando ormai era esausta e fuori di sé, aveva già provato con gli scappellotti di avvertimento, alle sberle di allerta sul “coppino”, i manrovesci come ultimatum, senza sortire alcun miglioramento, in piena crisi di nervi (per lei che amava studiare, la scuola ed il resto… doveva essere una sofferenza enorme), all’ultimo strattone, prima di gettare la spugna, pigliava il mio avambraccio con le sue mani forti e nodose (unica cosa non bella che aveva), se lo portava verso quella perfetta e meravigliosa dentatura, e probabilmente ed inconsapevolmente come gesto disperato di una resa, volendo comunque lasciarmi il segno, mi piantava un morso tanto liberatorio quanto forte, tanto lungo quanto il dispiacere di sapermi così diverso da lei, da lasciarmi dolorante, col segno del tolin della Coca Cola, sul braccio per… un’ora.  smile25x3 

La faccio un po’ lunga, ma concedimelo. Credo che tutti concordino che dentro alle quattro mura domestiche, nella quotidianità della nostra famiglia, in ogni nucleo, si creino regole, abitudini, prassi e/o eccessi, del tutto normali… per i componenti familiari, ed inconcepibili ed insopportabili per chiunque altro.

Negli anni, da quel suo “sfogo”, avevo imparato a proteggermi, e per subire meno conseguenze possibili, avevo imparato le tempistiche che la portavano a sferrato il morso, e la migliore tecnica di difesa: assecondarla. Come? 
Avevo notato che se quando mi afferrava il braccio per mordermelo, se invece di ritrarmi per sfuggire, la assecondavo, spingendoglielo bene in bocca, “le fauci della mamma” restavano aperte, e per una questione meccanica, non riuscivano ad imprimere al morso la medesima forza di quando questi si scaricava su una porzione inferiore del braccio.   smile25x3 Geniale vero?

Con questa tecnica avevo poi notato, che lo sforzo per mordere la affaticava maggiormente, e la mia sempre migliore interpretazione della sofferenza, la assecondava più rapidamente, riducendo effettivamente il mio dolore. 

Ho perfezionato quella tecnica, tanto che l’ultima volta, credo che fossi già più che adolescente, non ricordo per quale motivo, di certo per qualche altra minchiata che immancabilmente facevo, dopo le solite sberle, sberloni e manrovesci che ormai quasi non sentivo, è arrivata al momento topico del morso; io l’ho guardata, e distaccatamente (troppo distaccatamente) le ho “offerto” l’avambraccio da mordere, come a dirle: - dai mordi, fai in fretta, così la facciamo finita.   

Ricordo che l’ha afferrato, ha fatto per “azzannarlo”, poi, come se le si fosse accesa la lampadina della ragione, m’ha guardato e con gli occhi gonfiati di lacrime, l’ha allentato e siamo scoppiati a ridere divertiti, prima che uscisse da camera mia. È stata l’ultima volta che mi ha menato, non l’ultima che ha minacciato di farlo.   smile25x3 

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Vero che è bellissima quella foto? 

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Qui siamo nella casa di campagna dei nonni, ad Albagnano, vicino a Bee, sul lago Maggiore nel 1958. Io passavo con loro le vacanze estive mentre papà e mamma venivano alcune volte per il fine settimana. Mi piaceva stare li perché la casa era contenuta in un piccolo cortile (per me allora nemmeno tanto piccolo, anni dopo l’ho visto… era un “fazzoletto”). Mangiavamo spesso fuori, su un tavolo di cemento, ed andavo a prendere io i pomodori nell’orto, appena prima di iniziare a mangiare. Tagliati e conditi, erano ancora caldi dal sole quando li mangiavamo (tutti) dalla stessa marmitta. Deliziosi e sugosi, verso la fine, facevamo la scarpetta. A volte per non perdere la delizia del “sugo” lasciavi un pezzo di pane in “ammollo” ma dovevi fare attenzione che qualcuno (il nonno o papà) non te lo rubasse. La nonna mi avvertiva: - «Curalo perché loro sono ladruncoli».

Qui la mamma è al primo piano, dove c’erano le stanze da letto. Il bagno era al primo piano e… fuori dal muretto di cinta della casa, sicché, di notte se dovrava el Giuli

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Qui la mamma è sempre bella, ma inizia ad abbandonare quell’aspetto giovane delle precedenti foto, per assumere quelle della donna, madre di due figli. Infatti il Fausto, cinque anni più giovane di me, le è seduto in braccio, io sulle ginocchia di papà. 
Questa foto è stata scattata da un fotografo di Farabola, famoso studio di allora, per una servizio uscito su Grand Hotel, che parlava del Vigile pittore, che dipinge la vecchia Milano.

Abitavamo in via del Turchino, e ricordo che i pavimenti erano fatti di quelle piastrelle 20x20 di gres nero, e per farle venire lucenti, bisognava passare la cera. Così, quando era giornata, dopo avermi cacciato in corridoio, per spandere la cera, arrivato il  momento di “tirarla”, mi chiamava, mi faceva sedere su uno spazzolone panciuto, mi metteva le pattine sotto le pantofole, mi ordinava di attaccarmi al manico, «forte forte» e cominciava a spingere lo spazzolone avanti ed in dietro, cantando… - E passe e spasse sott'a stu barcone, ma tu si' guaglione...Tu nun canusce 'e ffemmene, si' ancora accussí giovane!,
oppure, che me ne importa a me se non son bella, io c’ho l’amante mio che fa il pittore, lui mi dipingerà come una stella, che me ne importa amme se non son bella.. la la la la…

In quella casa la ricordo cantare spesso, e cantare per me. Credo sia nata già a qui tempi la nostra complicità, mai “zuccherosa” ma comunque intensa. Per esempio, ricordo che amavo stare nel cucinino con lei, mentre preparava da mangiare. Era microscopico, ma io mi infilavo in uno “buco” e stavo lì a guardarla e sentirla raccontare cose che non ricordo, o ascoltare mentre cantava.

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Di questa foto ti ha già raccontato qualcosa che riguardava loro due, nel racconto per il compleanno di papà, ad aprile. In questo stesso periodo, che ritengo potesse essere intorno gli anni Settanta, a Milano, ma in verità in tutta Italia/mondo occidentale, per un giovane come ero io a quell’epoca (avevo 16 anni circa) il pericolo erano la droga e la loro “emulazione”.

 Frequentavo una scuola “alternativa”, gli amici di quartiere li avevo persi o snobbati e l’unico che frequentavo… era come me, anzi... Nei ritrovi che frequentavo come il “Fabbricone” e il “Panettone”, Situazione Creativa di Quarto Oggiaro o le panchine di piazza Martini, erano gruppi di persone ove si entrava ed usciva, in verità senza creare dei legami duraturi, così sempre si incontravano personaggi che raccontavano di favolosi viaggi in… Marocco, esoteriche avventure in… India, incredibili “esperienze” nell’ambito dei giorni di festival al Parco Lambro, o percorsi introspettivi e rivelatori dentro te stesso, dove l’uso di sostanze stupefacenti non era escluso.

Così, ipnotizzato ed affascinato dall’esoterismo degli argomenti, ha abbracciato lo stile inconsistente che era richiesto ed ho intrecciato quelle relazioni che mi hanno aiutato provare una spiccata indifferenza verso la vita… reale nei confronti della quotidianità del resto del mondo. 

Il periodo di scollamento dalla realtà si è protratto per due o tre anni. Fortunatamente l’insegnamento dei principi fondamentali di legalità appresi dall’educazione familiare, sono stati il deterrente per non infilassi o restare coinvolto di una delle tante notizie autodistruttive o di delinquenza, che i quotidiani di allora ormai riportavano nelle pagine interne di cronaca cittadina. 

Così dopo essermi reso conto del cammino errato che avevo imboccato, capendo che necessitavo di una forza esterna e di aiuto, ho deciso di… parlarne a mia madre. 

Pur amandola smisuratamente come si ama una madre, non siamo mai stati di “smancerie o coccole” così l’avvicinamento al tema ha avuto più la parvenza di una convocazione di un tavolo di trattativa sindacale che la corsa nelle braccia della mamma. Ma come detto, ogni famiglia è un mondo ed ha le sue “regole” e “linguaggi”.

Arrivato il giorno, la tensione in casa era palpabile, il silenzio era cupo. Gli altri due (papà e Fausto) evitavano persino la traiettoria degli sguardi miei e della mamma ed anche la Liza (faccia di cane nero, era il suo soprannome) pareva avesse capito che era meglio starne alla larga da tutti, accovacciandosi nella cuccia. 

Lei, la mamma, era l’unica a muoversi in casa, passava davanti alla porta della stanza per darmi l’opportunità di chiamarla, mi seguiva in cucina sistemando qualcosa ma in realtà per il medesimo motivo, silenziosamente e costantemente, come un animale che segue la preda, mi seguiva a distanza, sino a che, messo da parte l’orgoglio le ho fatto cenno di venire in camera mia. È entrata ed ha chiuso la porta, come a tranquillizzarmi che sarebbe stata una questione che avrebbe riguardato solo noi, ed ha iniziato ad ascoltarmi. Non ricordo come sono avvenuti i passaggi, ricordo però chi il crescendo alla fine incontrollato di “confessioni” ci ha portati a trovarci sdraiati sul mi letto, uno di fronte all’altro, fisicamente vicini come non lo siamo mai più stati…. Dopo un tempo che non saprei definire, la conclusione, in perfetto stile sindacale, è stata la seguente: 

«Ok! Mi hai detto tutto, ma non desideri interferenze su come e in quanto tempo risolverai la questione. Mi hai detto che non vuoi che ti chieda aggiornamenti sull’allontanamento da questi amici che non vuoi più, e che non vuoi che altri all’infuori di me, siano messi al corrente del momento difficile che stai passando. Ho capito».

Poi, spostandosi sul bordo estremo del cuscino, guardandomi fisso negli occhi, m’ha detto:

«Farò tutto quello che mi hai chiesto, ma…  se mi tradirai… ti ammazzo!». Riferendotela so di correre il rischio che tu possa crederla una “frase ad effetto”, ma se avessi visto lo sguardo e la determinazione con la quale me l’ha detta, anche tu sapresti che quella minaccia, non sarebbe stata un rischio, ma una certezza. Ha concluso dicendomi: «Ne parleremo ancora solo quando tu lo vorrai». 

Col tempo, l’età e la conoscenza della madre di mio figlio la questione si è sistemata.

Quel “accordo sindacale” un anno dopo mi ha salvato la vita.

Erano  gli ultimi colpi di coda, con quelle frequentazioni “esoteriche” e fricchettoneggianti. Infatti, col mio amico del cuore, l’Antonio, già notavamo più la sporcizia ed il degrado, la tristezza e l’apatia generale, che il senso comunitario e libertario che all’inizio ci aveva attratto. 

Andavamo ancora alle feste, tipo Re Nudo, sì… ma lasciando la mia Diane, posteggiata due vie dal Palalido, carica della attrezzatura da sci, (di ottimo livello), che avremmo usato già la mattina seguente la festa, e per tutto il fine settimana (lungo, perché Tomas – questo era il suo soprannome) si era fatto dare le chiavi della casa che il Camillo, suo padre, aveva a Cervinia -Valtournenche. 

Proprio in quel periodo, ed in una di quelle situazioni non esattamente asettiche, ho cominciato a sentirmi male, ma molto male. Arrivato a casa in taxi, quasi incosciente, naturalmente mia madre mi ha subito chiesto cosa fosse successo. Alle mie risposte vaghe o senza senso, la sua insistenza, lo puoi immaginare, si è fatta pressante, sino a che, all’ennesima domanda: «Ti sei drogato?» In un momento di lucidità le ho risposto: «NO!» piombando nel mio mondo.

Accorso il dottore, il mitico dott. Ripamonti, (quelli che sono del Chiesa Rossa sanno cosa intendo dire con… mitico. Mia madre poi lo portava in palmo di mano, per la professionalità e l’aiuto che ha dato a tutti noi della famiglia, principalmente a noi figli) ha subito ricondotto i miei sintomi, a quelli che, decine di altre volte con altri suoi giovani  pazienti, avevano avuto dopo aver usato di sostanze stupefacenti molto pericolose, che a volte si sono rivelate letali. 

C’è da dire che il mio aspetto, capelli lunghi, camicia indiana e gilet, vaccheros e jens,  insomma l’iconografia classica del fricchettone perso nei funi delle droghe, non aiutavano a considerare altre diagnosi. 

Anche lui, mi ha  ripetuto la stessa domanda ed io gli ha dato la stessa risposta. No! 

Ciò che ti sto raccontando mi è stato riferito da mia madre, perché io ero quasi sempre incosciente. Così, quando il Ripa (così lo chiamavamo) m’ha chiesto ancora una volta se mi ero drogato, la mamma gli ha detto, immagino innervosita…  «Se le ha detto che non si è drogato, cosa insiste a chiederglielo!» Il dottore stupito della reazione le ha chiesto come facesse ad esserne così certa della risposta, visto che ero in uno stato di incoscienza alternata. «Perché l’ha detto, quindi è così». Il Ripamonti ha riflettuto un attimo, telefonato l’ospedale Sacco, dove sono rimasto ricoverato, quaranta giorni, in isolamento, per una meningite cerebro spinale da virus.

Il dottore del Sacco ha fatto i complimenti al Ripamonti esser stato capace di guardare quei sintomi con un ottica differente, il Ripamonti si è complimentato con la mamma per aver avuto la determinazione e la freddezza di credermi anche in quelle condizioni, io mi sono preso del pirla da mio padre per fatto prendere uno “spaghetto” così grande a tutta la famiglia. 

Così, qualche mese dopo, quando la salute e la tranquillità erano tornate in famiglia, per ringraziare la benevolenza della buona sorte, papà ha pensato che avremmo potuto “festeggiarla” facendo un viaggio a… Cuba. E così è stato.

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Qui siamo intorno al 1977/78, ad una mostra di papà che certamente non era più allestita nella galleria dalle famose sorelle Barbaroux. 

Nel gruppo, dietro al posacenere a stelo, seduta elegantemente di lato, come si conviene ad una signora di classe, ( smile25x3  ) si nota di profilo la Nemi, mentre conversa con due signorine, una delle quali, quella che dalla folta capigliatura le spunta solo la punta il naso, appoggiata a delle “guanciotte” ancora adolescenziali, che diverrà sua nuora.

Il rapporto tra suocera e nuora, tanto pericoloso in taluni casi, tra la Nemi e la Manuela non è mai stato un problema. Quest’ultima, appena entrata in famiglia la ha provato una  notevole stima ed affinità con la “suocera”, la quale ha risposto altrettanto favorevolmente con una forte intesa, che però non ha mai interferito nei rapporti e negli gli “spazi” che giustamente competono separatamente ad ognuna delle due donne,  anche nei non pochi momenti difficili o di grande cambiamento che sono riuscito a creare, come ad esempio, la decisione di separarmi.

Due facce della stessa medaglia

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Ho voluto fare questo collage, per accompagnare con alcune immagini, il racconto di un aspetto del suo carattere che il lavoro ha accentuato. Parlo della decina di anni che l’ha vista impegnata all’Udi, prima come volontaria poi come presidente della cooperativa dell’associazione, che come ho già detto a Marzo, comprendeva tre entità lavorative, dislocate in differenti luoghi del nord Italia. Delle tre, l’impegno maggiore lo necessitava l’albergo Antonietta a Pinarella di Cervia, una struttura aperta in estate, nelle maggiori festività e in tutti i più importanti ponti festivi annui, composta da un importante numero di camere, che aveva bisogno di un notevole lavoratori, tra personale di pulizia e manutenzione, camerieri di sala e cuochi, ed amministrativo, della quale lei era responsabile.

Questo carico di responsabilità, l’aveva portata a vestire la guardinga camicia dell’attenzione, abbinata alla stretta cravatta del controllo, coperte dal classico abito di pragmatismo e distacco manageriale. Credo che la foto grande, mostri chiaramente l’immagine esteriore che in quel periodo dava a chi non la conoscesse bene.  

Qui è sul balcone della sala, che pulisce una pianta di rosmarino, come farebbe una qualunque casalinga, ma… la camicia rossa sotto al gilet nero, l’orologio al polso di una mano inanellata, e l’immancabile sigaretta, svelino l’inganno del quadretto casalingo, mostrando che in realtà che si tratta di un attimo di pausa/passaggio, un fugace ritorno a casa. 

E che dire dello sguardo, non serio e non giocoso, diciamo di allerta, e della  lettera che spicca sul gilet, non è la “N” di Nemi, ma bensì la Napoleonica iniziale del suo nome    smile25x3    . 

Sotto, la vediamo sempre a Pinarella, nelle due foto laterali col suo fedelissimo braccio destro, la Cristina, la direttrice dell’albergo Antonietta, dalla mamma definita: “l’ineguagliabile”. Al centro, sfruttando la luce del sole ottimamente posizionata, che valorizza l’ottima forma fisica, la “compiaciuta” cinquantenne Presidente della Cooperativa si fa ritrarre nel cortile dell’albergo. 

È da questo periodo e dalla sua notevole crescita professionale, (costata anche in termini di equilibri famigliari) che ho tratto un beneficio ed un insostituibile appoggio per il mio di percorso professionale. 
Infatti, lei mi è sempre stata vicina nelle mie avventure professionali, assumendosi mansioni amministrativo/burocratiche di grande responsabilità. Consigliere amministrativo anche coinvolta legalmente, non ha mai espresso suggerimenti strategici o artistici nella mia attività, è sempre stata “solo” un mio socio di minoranza, “silente” e “confidante”, mantenendo una postura che mi ha permesso di occuparmi solo della parte a me più consona, permettendomi di raggiungere i risultati che ho raggiunto.

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In un crescendo di allegria sino ad arrivare alla complice rassegnazione di lasciarsi fotografare per gioco, come nessuna donna vorrebbe mai esser vista da qualcun altro, in questo collage ti mostro l’altra faccia della medaglia di nome… Nemi.

Dall’alto, un fiore pungente in un giardino di cactus nani, una Nemi sorridente fotografata dal Nani, in uno dei primi anni dell’era Tenerife. La mamma chiamava papà “Nani” e papà chiamava la mamma: “Grugno”. Il signore…  del Calvairate non si smentisce mai!

Segue felice, a casa loro, mentre praticavano lo sport preferito in età da pensione: i mangiarini. Precursori degli attuali salfie tre quarti delle foto che ho ritrovato, li vede a tavola con amici o in casa, mostrando una pietanza speciale, poco prima di “sbaffrarselo”. 

Non immagino il motivo per il quale ridesse così di gusto, qualcosa me lo fa supporre la bottiglia vuota che tiene in mano… però conosco perfettamente la motivazione per la quale, mentre con le mollette in bocca stendeva dei panni, ed io le sono arrivato davanti con la macchina fotografica puntata, non togliendosele dalla bocca, ha farfuglato: «non fare lo stupido, non fotografarmi così…». 

Implacabile, ho premuto sul tasto dell’otturatore per ricordarla per sempre così: “esclusiva”, come lo era solo per noi. 

Un chiaro esempio di come in realtà fosse anche allegra e giocosa, tra le quattro pareti di casa, è la foto che segue. Già fortemente ammalata e debilitata, in uno dei rari e brevi momenti dove il dolore e gli effetti collaterali dei tanti farmaci che doveva assumere, le davano tregua, ancora accettava di giocare a… “fare gli stupidi”, così come lo fanno i bambini, per esempio con una orrenda parrucca.

L’ultima foto, la vediamo tutta in ghingheri, che ci saluta sorridente da un tavolo del Rancio Grande di Tenerife.

Grazie per avermi letto sino a qui. Ivo

 

Nemi Tattanelli Milano 02/06/1933 – Puerto de La Ceuz 08/08/2013

 

 

 


 

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