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Mentre scrivo mancano pochi giorni al 31 gennaio.

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Quattro anni fa come oggi tutti noi di della famiglia e gli amici più stretti, sapevo che la vita di mio padre ormai era agli sgoccioli.
Poco più di un mese prima, il dottore del reparto di chirurgia generale del San Paolo, alla mia domanda aveva risposto «Mmmm un mese… un mese al massimo».

I dottori oggi non sbagliano più. A settembre non aveva sbagliato nemmeno la dottoressa dell’ottavo piano (Oncologia) quando dopo l’operazione all’esofago, fiducioso della buona ripresa di papà ero andato a parlare con lei per farmi consigliare sulla inaspettata richiesta del viejo «portom a Tenerife per l’ultima volta».

Il bravissimo primario “Kappler” (così la chiamavamo affettuosamente per la sua rigidità nel farci rispettare gli orari di visita) quando le ho chiesto se ritenesse opportuno aspettare che papà si ristabilisse, per affrontare meglio un viaggio così lungo, m’ha risposto «NO… ci vada appena può . Dopo potrebbe esser troppo tardi». Per fortuna le ho dato retta.
Conservo un video del viejo, che… bastone alla mano, ma che non tocca nemmeno terra, percorre un corridoio del supermercato a passo spedito, in cerca della… farina per fare la polenta. Meraviglioso ricordo, l’ultimo suo che… CAMMINA.

Era il 29 dicembre del 2013, verso mezzogiorno, ero sull’ambulanza che lo trasferiva alla Residenza Anni Azzurri di via San Faustino, dietro a Lambrate.

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A papà, ed ancor meno a me che avevo firmato le carte per il trasferimento, il “promettente” nome della Residenza privata trasmetteva tranquillità. Il lavoro del copy non era rivolto a noi.
Noi andavamo all’hospice della Residenza, una parte della struttura formata da un ristretto numero di stanze singole, che il Comune di Milano (o forse la Regione Lombardia… non so quale) tramite un accordo, aveva riservato per ospitare i malati terminali provenienti dagli ospedali pubblici, ancora e solo per un massimo di 60 giorni.

Un servizio eccellente, del quale non finirò mai di ringraziare Città, Regione, Amministratori chiunque l’abbia ideato, organizzato e realizzato, di qualunque partito facesse parte.

Prima del trasferimento, in un paio di incontri, gli assistenti sociali dell’ospedale mi/ci avevano spiegato ed orientato relativamente alla situazione che avremmo/avrei dovuto affrontare durante il periodo di “fine degenza” di papà. Per questo avevo firmato.
In quei momenti spesso accade che il parente dimentichi (a me NO! Lo ricordavo bene perché me l’avevano ricordato pochi mesi prima, con mia madre, in Spagna) che gli ospedali sono strutture per fronteggiare le urgenze e le degenze finalizzate alla guarigione, non per accompagnare i pazienti alla morte.
Là come al San Paolo, a ricordarlo ai parenti distrutti dal dolore sono gli assistenti sociali. Un compito davvero ingrato.

L’entrata della Residenza è simile a quella di uno di quei begli alberghi tre stelle della Riviera Romagnola.
L’accesso alla zona hospice però è pochi metri prima della hall della Residenza Anni Azzurri. Da un corridoio si arriva ad un ascensore ospedaliero, lungo, di quelli che i poggia mani rettangolari ed alti di alluminio, sono posti lungo il perimetro dell’ascensore e servono più a proteggere le pareti dai lettini dei pazienti che a sostenersi.
Delicatamente un trillo segnala l’arrivo al pianerottolo. A sinistra, la porta frangi fiamme che va alla scala dell’USCITA d’emergenza, a destra le porte spalancate dell’ENTRATA… all’hospice.
La prima volta che ho percorso quel corridoio, spingevo papà seduto sulla carrozzina, passando davanti alle porte cercavo il 113. Tentavo di mascherare l’imbarazzo ed il disorientamento con quelle frasi del cazzo, scontate, falsamente allegre, false ed elusive che già dal mese giugno, da quando la mamma era stata ricoverata per l’ultimo suo ictus, avevo utilizzato (senza riuscirci… logicamente) per negare la “realtà”.

Infatti papà, percorrendolo quel corridoio m’ha detto «Surreale» - «Come?» - «È tutto surreale qui».
Surreale… è una parola che da allora per me ha cambiato di significato.

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Clicca sulle porte dell'ascensore per percorrere...



L’hospice di via San Faustino è una struttura eccellente. Il personale medico, gli infermieri e gli inservienti – IN…dispensabi- tutti con noi sono stati, anzi… SONO persone meravigliose.
Dalle attente e precise Caposala, agli/alle bravissime infermiere che anche alla ventesima chiamata notturna del paziente dolorante, non perdono la pazienza anche trattandosi di rimboccargli le coperte, allo scrupoloso e sempre disponibilissimo personale di servizio. Sono tutte persone normali, comuni che vedendoli mentre lavoravano, per mio padre, ma anche per me, non posso possono persone: come degli angeli custodi così possano essere ricompensati con 1.200/1.500 euro al mese?
È gente che lavora tutti i giorni in un corridoio, dove a decidere quale stanza deve essere preparata per il nuovo inquino è sempre e solo la morte.

Appena arrivati ci spiegano che all’hospice non c’è un orario stabilito per far visita dei parenti e che i parenti possono stare in stanza col paziente tutto il tempo che desiderano, ma che fuori dalla porta della stanza si può sostare solo per pochi minuti. Se si desidera chiacchierare e rilassarsi è allestito un salottino in fondo al corridoio.
Le stanze sono spaziose, pulite, essenzialmente ma dignitosamente arredate, è permesso ad un parente pranzare o cenare usufruendo del servizio ospedaliero, di fermarsi alla notte e coricarsi nel letto appositamente ed il mattino seguente fare colazione.

La sera successiva al nostro arrivo, dopo la cena, papà si era subito addormentato davanti alla televisione. Io, allora mi sono messo ad ascoltarla con le cuffie. Ad un ceto punto, il silenzio in corridoio si è rotto, erano “rumori” provenienti dalla stanza di fronte alla nostra. Mi son tolto le cuffie, ho prestato attenzione, poi il singhiozzio soffocato e un rumori di andirivieni agitato mi hanno fatto avvicinare alla porta socchiusa, per sbirciare. In corridoio c’erano due donne della mia età, abbracciate che piangevano e si consolavano, le infermiere entravano ed uscivano silenziose e composte dalla stanza. Ho capito che era morto quello della 112.

Come a voler lasciar fuori quel dolore ho chiuso la porta e sono tornato a letto. Non ho pensato a nulla, ne di profondo ne di filosofico, ho chiuso gli occhi e smesso di ascoltare ciò che succedeva in corridoio e mi sono addormentato sentendo il respiro forte del mio viejo.
Alla mattina, quando Guanita è venuta da noi, sorridente con l’attrezzatura per fare la pulizia personale a papà, che da qualche tempo era diventato insofferente a questa “violenza”, la porta della stanza 112 era spalancata, il materasso sul letto era ripiegato su se stesso, come a militare, il piano del comodino era vuoto ed i “trespoli” delle flebo liberi dai flaconi. La stanza era pronta per il prossimo ospite.

Il 31 dicembre del 2013, verso le 11:30, lentamente si è aperta la porta. In controluce, una sagoma che non ho subito riconosciuto subito, mi ha detto che se non volevo aspettare l’anno nuovo da solo, potevo andare “dal’altra parte” e trascorrerlo assieme ai suoi colleghi.
Ho accettato e dopo essermi vestito e mi sono diretto in fondo al corridoio, dalla parte del salottino, dove aveva lasciato la porta socchiusa.
Nella grande stanza, ai tavolini quadrati ben allineati del refettorio, c’erano seduti sulle carrozzine bloccate o sulle sedie, munite da deambulatori parcheggiati a portata di mano, sparpagliati e suddivisi in coppie o da soli, poco meno di una dozzina anziani.

Da una altra parte, ad un tavolo formato da quelli mancanti all’allineamento del refettorio, c’erano alcune infermiere dalla Residenza e e ????, l’ucraina dai capelli rossi che serviva i pasti all’hospice, che mi aveva invitato.

Sopra una tovaglia rossa di carta, in contenitori di alluminio, piatti di plastica, ciotole e piattini ospedalieri della prima colazione, c’erano le specialità del paese d’origine di ognuna di loro che aveva preparato e portato per quella notte di festa.
La sudamericana aveva portato il pollo fritto con … ???? …, due ucraine (se sono dell’est per me sono tutte UCRAINE – figurati non so nemmeno dove si trovi l’Ucraina) avevano preparato una salsa, credo a base di yogurt, da magiare con una focaccia e poi un dolce col miele, una pugliese, o giù di lì, aveva fatto delle lasagne e qualcos’altro sempre di verdure ed una scura di pelle, (somala???) aveva anche lei contribuito con qualcosa del suo paese.
Ascoltandole più che parlandoci, assaggiando e sorridendo per mostrare i gradimento, siamo arrivati, sincronizzandoci alla televisione, a stappare col resto degli italiani lo spumante e farci gli auguri.

Meno di mezz’ora dopo il brindisi, quando hanno iniziato a spingere i primi anziani a nanna, ho ringraziato e preso l’occasione per tornare alla nostra stanza.
Prima di andarmene le ho chiesto perché fossero stati disposti così i nonni. «Dopo 10 minuti iniziano a litigare se stanno vicini. Sono come i bambini» è stata la risposta accompagnata da una risata corale. Hehehehe. «Hahahah grazie… Ancora buon anno».
Sono tornato dal mio vecchio che ormai non aveva più nemmeno la forza di discutere, figuriamoci per litigare.
Un mese dopo, il 31 gennaio 2014, alle 16:00 ero in camera con la Manuela, mi sono alzato e sono andato al letto di papà. Il viso stravolto e ceruleo, storpiato da una bocca alla ricerca di ossigeno non era più quello di 10 minuti prima. Spaventato ho preso il suo viso tra le mani, ed in lacrime ordinato alla Manuela di correre a chiamare qualcuno. Mentre correva alla stanza del personale medico, in fondo al corridoio, papà ha esalato l’ultimo respiro mentre tenevo il suo viso tra le mani.

Quando è arrivata la dottoressa, ho visto solo lo stetoscopio che aveva al collo. Gliel’ho preso, l’ho messo all’orecchio e posato al petto di papà. Tale e tanto era il pianto rotto dal singhiozzo che non sentivo nulla. Non avevo mai auscultato nessun battito e disperato com’ero, non avrei sentito nemmeno il battere di una grancassa di un gruppo heavy metal. La dottoressa l’ha ripreso, l’ha posato sul petto di papà ed un attimo dopo ha strizzato la bocca e socchiuso un attimo gli occhi in quel gesto che significa… mi spiace e se ne è andata discretamente.

Qualche giorno dopo sono andato da il mio amico Axxxxxo per dirgli che anch’io avevo avuto la “fortuna” di provare quell’inspiegabile sensazione che aveva tentato di descrivermi qualche tempo prima.

“La morte è una porta che tutti dobbiamo varcare”. Io mi auguro… un molto corto e ben illuminato corridoio.

Ciao viejo ti voglio bene. Ivo

 

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