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Agosto 2015
A forza de schisciagh i ball… no, non è vero. Non ho dovuto insistere e nemmeno sono stato “invogliato” a pubblicare anche questo secondo racconto del Roberto Marelli.


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Lui è una persona riservata e comprensiva, ed è bastata la mia prima richiesta, per avere il permesso di pubblicare anche questo piacevole racconto, sull’abitudine, ormai non più solo meneghina di schisciagh i ball al tor in Galleria. Ho letto il racconto, mi hanno divertito le spiegazioni che Roberto riporta, di quest’usanza, e su una spiegazione, ho fatto una riflessione. 
Poi te la dico, ti lascio al racconto del Marelli. 

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 Buona lettura. elbor


 

Brandelli di Milanesità

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Andemm a schisciagh i ball al tor

Tratto da “La Zona Milano” Aprile 2015

di Roberto Marelli

La Galleria Vittorio Emanuele fu inaugurata da Sua Maestà, non ancora terminata, domenica 5 settembre 1867. Dieci anni dopo, l’1 febbraio 1877, venne illuminata per mezzo di un originale congegno chiamato “rattin” (topolino) che, correndo su di un binario lungo i muri, accendeva i beccucci del gas. L’avvenimento fece scalpore e, ogni sera all’ora stabilita, la Galleria si riempiva di milanesi e di forestieri che, naso all’insù, guardavano le evoluzioni del “rattin” lungo l’ottagono. La notizia, riportata con grande rilievo dalla stampa, si spase ovunque e chi veniva a Milano non mancava di fare il classico giretto in Galleria. I milanesi, orgogliosi del loro salotto presero come abitudine, nei giorni festivi, di fare “quatter pass” in galleria con gli amici o con la famiglia, tanto che nacque il detto : La Galleria Vittorio Emanuele l’è la capponéra di meneghitt! – Che io traduco così: la Galleria Vittorio Emanuele è il ritrovo dei meneghini! Anche se il detto è molto più ironico ed esplicativo in quanto “capponéra” è la stia dove si raccolgono i polli. Vi si andava per l’aperitivo al Campari, una bevanda alla birreria Stoker (ora Savini), o per assistere ai concerti del Caffè Grand’Italia. Giovanni D’Anzi e Attilio Carosso scrissero la canzone “Quatter pass in Galleria” che ebbe un grande successo, tanto che oggi, in piena globalizzazione, la sentiamo canticchiare persino dai giapponesi, che da qualche anno pare abbiano preso possesso della Galleria o, più precisamente, dell’Ottagono, dove ogni giorno figli e figlie del sol levante stanno ordinatamente in fila nell’attesa di schiacciare “le palle del toro” con relativa foto ricordo…. chissà chi ha raccontato loro che il gesto è apotropaico….. (scaramenzia?) che accadrà nel periodo dell’Expo, quando la fila di persone arriverà fino a piazza Diaz e il “solco” in prossimità degli attributi del povero toro diventerà sempre più profondo?
Del perché si calpesti il mosaico rappresentante il maschio dei bovini, simbolo della città di Torino, le versioni sono molteplici e ve ne elenco alcune:
Una vecchia tradizione meneghina invita a strisciare il piede sinistro sullo stemma, soltanto il 31 dicembre a mezzanotte, così facendo il nuovo anno sarebbe stato fortunato.
Alcuni invece, lo facevano come gesto di spregio contro Torino, ex capitale del Regno d’Italia (1861-1864), e contro i Savoia.
Altri, appoggiando il tacco della scarpa sinistra in corrispondenza dei genitali del toro, fanno tre giravolte, come gesto scaramantico. Ma la più verosimile nasce come burla tra studenti universitari e liceali,  come mi ha raccontato nonno Berto, poeta meneghino e grande affabulatore, ecco la sua testimonianza: Devi sapere, caro Roberto, quando ero giovane, nella primavera del 1948, io, il mio amico Lino e un gruppetto di amici ci si incontrava quasi ogni giorno, per la solita partitella al pallone, in via San Giovanni sul Muro -proprio davanti al Teatro Dal Verme non ancora ricostruito dopo i bombardamenti del 1943 – si baruffava per il Milan, l’Internazionale, il grande Torino, e naturalmente di parlava di donne soprattutto di conquiste…quasi sempre di fantasia! Un giorno un ragazzo venne fuori con questa frase “Dai! Andemm a schisciagh i ball al tor in Galleria”.

Io gli chiesi perché dovevamo farlo e lui rispose che gli avevano detto che portava bene ma non seppe dire altro. La cosa ci incuriosì e Lino propose di andare a chiedere spiegazioni al suo ex professore, ormai in pensione, che di solito passava le giornate in piazza Mentana, vicino alla scuola dove aveva insegnato per tanti anni.

Il professore aveva più di 80 anni ed era noto per la sua disponibilità verso gli studenti della Scuola Arti e Mestieri di via Santa Marta che gli si rivolgevano quando non capivano alcune lezioni e lui pazientemente dava loro esaurienti spiegazioni, pertanto era benvoluto da tutti. Prendemmo le nostre biciclette e ci avviammo in Piazza Mentana. Trovammo  il professore seduto su di una panchina, intento a leggere il giornale. Ci avvicinammo rispettosamente e, quando fummo davanti a lui, il professore abbassò il giornale, ci squadrò da capo a piedi e disse sorridendo: “cosa volete da me sbarbatelli?”

Ci fu un attimo di silenzio poi Lino, indicandomi: “Lui vuole sapere perché si dice andemm in Galleria a schiscià i ball del tor!” Il professore mi sorrise e disse: “fai bene a chiedere spiegazione di ogni cosa che non sai, - poi rivolgendosi a tutti – ragazzi chiedete sempre, non abbiate né timore, né soggezione, è così che s’impara; e sempre sorridendo iniziò: “Questo rito fu inventato da alcuni universitari, subito dopo l’inaugurazione della Galleria per prendersi gioco degli studenti che non avevano ancora compiuto il 18° anno d’età e non potevano frequentare le “case chiuse”; il procedimento, cui sottoponevano i liceali, consisteva nel percorrere di buon passo la Galleria, entrando dal lato di Piazza Duomo, giunti all’Ottagono, davanti al toro – simbolo della città di Torino – dovevano passare il piede sinistro sopra i suoi genitali, fare un giro completo su se stessi e schiacciarli per acquistare la virilità, quindi proseguire di corsa verso l’uscita di piazza della Scala. I giovani studenti erano obbligati a ripetere questo rito ogni qualvolta passavano in Galleria, altrimenti avrebbero dovuto pagare un pegno agli universitari che sostavano ai tavolini della birreria Stoker. La cosa cessava quando, compiuti i 18 anni, gli universitari accompagnavano l’esordiente in un “casino”, lo facevano salire in camera con la signorina prescelta, la quale a prestazione finita, tornava in sala d’attesa, rivolgeva un segno convenzionale agli amici e qualora il cenno fosse positivo, il giovano sarebbe stato esonerato dal tornare in Galleria; viceversa, il rito del toro doveva essere ripetuto fino alla “prova” successiva. Dopo questa dotta spiegazione il professore, con un sorriso complice, ci salutò dicendoci: ”Occhio e croce a voi mancano ancora un paio d’anni per la prima… auguri! Nel frattempo non consumate troppo le suole con le giravolte chele scarpe costano!”


 

Caro Roberto, in Aprile ti chiedevi, cosa sarebbe successo con l'EXPO.
Ecco cosa succede in Agosto ai pover ball del tor, de la nostra Galleria!

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motoperpetuo from Ivo Borgonovo on Vimeo.

Ora, la riflessione. Per noi “maschietti” che per anno di nascita e per un accento, non abbiamo avuto nemmeno la possibilità, di rifiutare, di “sottoporci” all’esperienza di andare al casino, mentre abbiamo avuto quella (meno piacevole e sicuramente più costosa - non per il francesismo accentato della parola) del casinò, risulta difficile immaginare com’era vivere la propria gioventù, prossima alla prima esperienza sessuale, quando la “morale comune” era quella antecedente al  20 febbraio del 1958. 
A sentirne parlare tranquillamente, sorridenti e divertiti ancor oggi, molti dei giovanotti di una volta, come l’Ezio, l’Emilio, (non metto l’Elio – mio padre - per non fare il tris di “E” e… perché lui non me ne ha mai parlato, anche se credo ci sia andato come gli altri. Sono pur sempre un figlio…) capisco che la questione era consueta. Tullio Barbato, ci ha scritto un libro sull’argomento: “Case e casini di Milano” edito da Virgilio Edizioni, 1982. 
Il Marelli, in questo racconto, narra molto bene questa impressione che sento, di consuetudine e di “benevolenza” nei confronti dei… futuri 18enni, alle prese con la prima esperienza in una casa chiusa (spesso la prima esperienza sessuale in assoluto). 
Quando Roberto racconta… - Dopo questa dotta spiegazione il professore, con un sorriso complice, ci salutò dicendoci: ”Occhio e croce a voi mancano ancora un paio d’anni per la prima… auguri! – è “l’immagine” perfetta che racchiude i punti della mia riflessione: complicità e “certezza” della tempistica.

Posto che concordo con la chiusura delle case chiuse e che lo Stato NON debba in alcun modo, né trarre beneficio né farsi garante della regolamentazione di un’attività come la prostituzione, (di ambo i sessi) rifletto sulla chiacchierata con l’Ezio. 
È inequivocabile la sensazione di piacere, divertimento e nostalgia (non solo dovuta al tempo che è passato) per quel un sorriso divertito che gli si dipinge sul viso, quando accenna ad alcuni episodi che accadevano in quelle situazioni. 
Se penso a me, per trovare una simile sensazione di piacere e di appartenenza allo stesso tempo, debbo andare indietro nel tempo, quando mi ritrovo a ricordare, con altri come me, che hanno adempiuto all’anno di leva obbligatoria. Difficile trovarne uno che non lo rivivrebbe, e mi riferisco a quella situazione “irreale” ed unica che solo chi l’ha vissuta la intende, ricorda benissimo e… magari la rimpiange.
Scusa… era una riflessione, e delle mie.

Se vedom… elbor

Ps. Ho trovato che un rap ha fatto un pezzo sull’argomento. “Case chiuse” di Claudio Bernieri. Ascoltalo cliccando qui